Non tutto si colma. Ma qualcosa, dentro, si trasforma.
Metabolizzare non è dimenticare. È imparare a respirare accanto al vuoto.
Metabolizzare... una parola che non mi è mai andata a genio. Porta con sé, sì, un significato di trasformazione, ma anche un'idea di dover assorbire qualcosa che non abbiamo scelto. Come se ci venisse chiesto non solo di accettare, ma di fare nostro ciò che magari ci ha fatto male, ci ha sconvolto, ci ha cambiato in modo indesiderato.
Metabolizzare non è come guarire: è più silenzioso, più intimo. È il lavoro dell'organismo e dell’anima che, senza fare troppo rumore, trasforma il dolore, la sorpresa, la perdita, o anche solo una novità inattesa, in qualcosa che possiamo portare con noi senza che ci laceri.
Eppure, c'è qualcosa di ingiusto in tutto ciò. Perché mai dovremmo farci carico di elaborare ciò che altri ci hanno inflitto o che la vita ci ha gettato addosso senza preavviso? “Metabolizza,” ci dicono. Come se fosse un dovere.
Ma forse il potere sta proprio lì: nel decidere di metabolizzare, cioè di trasformare, sì, ma alle nostre condizioni. Senza fretta. Senza pretese. Restituendo significato a ciò che, per un attimo, ce l’aveva tolto.
Due sedie vuote.
La luce che le accarezza attraverso le fessure sembra volerle consolare, ma resta tutto immobile. Una quiete che non è pace, ma sospensione. Quelle sedie erano sempre occupate. Magari da parole accese, da gesti quotidiani, da presenze ingombranti o rassicuranti. Ora restano lì, come testimoni silenziosi di ciò che non accadrà più.
Metabolizzare questo è un verbo che pesa. Come se bastasse il tempo a rendere meno vuoto quel vuoto. Ma non è così. Non ancora. Non oggi.
Ogni volta che entro in quella terrazza, il mio sguardo cerca ancora quei due corpi, le mani che gesticolavano mentre si discuteva di cose importanti e di sciocchezze, le risate che rompevano le tensioni, gli sguardi complici o contrari. Le sedie sono lì, come fotografie senza soggetto, come promemoria fissi di un’assenza che non si fa dimenticare.
Ed è questo che devo metabolizzare: non solo la mancanza, ma l’interruzione. Il dialogo che non riprenderà.
Le decisioni che ora spettano solo a me.
Le parole rimaste in gola, quelle dette troppo in fretta, quelle mai dette.
C'è un malessere che serpeggia in questo spazio, che non trova forma né sollievo. Non si tratta solo di dolore. È qualcosa di più sottile e duraturo. È il senso profondo che qualcosa si è spento. Non con clamore, ma con la discrezione spietata dell’inevitabile.
E allora guardo quelle sedie, e so che non posso ancora guarire. Ma posso stare. Stare nel silenzio, nella nostalgia, nell’eco di ciò che era. Posso ascoltare il vuoto. E forse, piano piano, sarà lui a insegnarmi come si fa, come si metabolizza davvero.
E quelle due sedie sono rimaste lì, come inchiodate alla scena. Non c'è stata fretta di spostarle, né voglia di coprirle con un telo o relegarle in un angolo. Sono rimaste dove sempre sono state, come a voler custodire un frammento di tempo, come se la loro sola presenza bastasse a contenere tutto quello che non può più essere detto.
Non sono solo oggetti. Sono simboli. Testimoni muti di ogni cena iniziata con un sospiro e finita con un sorriso. Di discussioni accese, di abbracci dati a metà, di parole dette "perché dovevano essere dette", e di altre taciute, per amore o per orgoglio.
Ogni volta che passo davanti a quella terrazza (che ora sembra più grande, ma solo perché è più vuota) sento che qualcosa dentro di me si ritrae. Come se la mia stessa memoria facesse fatica a rientrare lì, come se non sapesse dove posarsi. Non ci sono più le voci a guidarla, né le presenze a darle una direzione.
Metabolizzare questo vuoto è come tentare di abbracciare il vento. Lo senti, ti attraversa, ma non riesci a trattenerlo. Non si lascia afferrare, eppure ti cambia. Ti raffredda la pelle, ti scuote le certezze.
Mi hanno detto che passerà. Che il dolore si smussa, che il tempo insegna. Ma nessuno dice mai quanto pesa il tempo mentre insegna. Quanto è lunga l’ora in cui manca chi amavi. Quanto è rumoroso il silenzio delle cose che non torneranno.
Eppure, è in questa lentezza che qualcosa si muove.
Un giorno ho lasciato che il sole del pomeriggio entrasse fino in fondo nella terrazza. Ho guardato le sedie senza voltarmi subito dall’altra parte. Ho ascoltato i miei passi nel silenzio. Ho respirato senza aspettarmi una risposta.
È stato un gesto piccolo.
Ma in quel gesto, qualcosa ha fatto spazio.
Forse metabolizzare non è dimenticare, né rassegnarsi.
Forse è solo imparare a convivere con l’eco, a lasciare che le assenze smettano di gridare e inizino a parlare piano.
𝑳𝒖𝒊𝒔𝒂 𝑪𝒂𝒔𝒂𝒈𝒓𝒂𝒏𝒅𝒆 | 𝑩𝒖𝒔𝒊𝒏𝒆𝒔𝒔 𝑬𝒙𝒆𝒄𝒖𝒕𝒊𝒗𝒆 | 𝑫𝒆𝒗𝒆𝒍𝒐𝒑𝒎𝒆𝒏𝒕𝒂𝒍 𝑺𝒆𝒏𝒊𝒐𝒓 𝑴𝒆𝒏𝒕𝒐𝒓 | 𝑻𝒆𝒆𝒏 𝑴𝒊𝒏𝒅𝒔𝒆𝒕 𝑪𝒐𝒂𝒄𝒉 | 𝑫𝒊𝒗𝒆𝒓𝒔𝒊𝒕𝒚 𝑻𝒓𝒂𝒊𝒏𝒆𝒓 | Autrice di “𝗘𝗱𝘂𝗰𝗮𝗿𝗲 𝗹’𝗶𝗱𝗲𝗻𝘁𝗶𝘁𝗮̀ 𝗰𝘂𝗹𝘁𝘂𝗿𝗮𝗹𝗲 – 𝗨𝗻𝗮 𝗴𝘂𝗶𝗱𝗮 𝗽𝗲𝗿 𝗰𝗿𝗲𝘀𝗰𝗲𝗿𝗲 𝗰𝗼𝗻𝘀𝗮𝗽𝗲𝘃𝗼𝗹𝗶 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗽𝗿𝗼𝗽𝗿𝗶𝗲 𝗰𝘂𝗹𝘁𝘂𝗿𝗲 𝗲 𝘁𝗿𝗮𝗱𝗶𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶”